In un’intervista in occasione della nuova serie che lo vede protagonista, Luca Marinelli ha ammesso che interpretare Mussolini sia stato particolarmente difficile, avendo lui una famiglia antifascista. Subito si sono scatenati i leoni da tastiera, che hanno accusato Marinelli di ipocrisia (“Voglio vedere se è stato difficile anche prendere i soldi, attore sinistroide!”)

Ma lasciamo le faide social alle sezioni commenti e cerchiamo piuttosto di capire cosa significhi, tecnicamente, l’affermazione di Luca.

La nuova serie M: Il figlio del secolo

Tratto dal libro di Scurati, diretto da Joe Wright (che ci ha regalato già, tra le altre cose, un gran film su Churchill) e interpretato da Luca Marinelli. La serie sul personaggio di Benito Mussolini visto da tutti i punti di vista possibile, rompendo anche la quarta parete, ha stuzzicato molto le aspettative del pubblico negli ultimi mesi, dividendone abbastanza l’opinione.

Parlano di interpretazione caricaturale, macchiettistica; ma d’altronde che altro si può volere da un personaggio che di per sé è una macchietta, di cui si ha solo ciò che lui voleva si avesse e si vedesse? Innegabile è l’alta qualità del prodotto, dalla regia, alla fotografia, al montaggio. Vogliamo parlare del trucco? Guarda Marinelli che bono, e come ora assomiglia al pelatone nemico numero uno dell’Italia. L’accostare poi il tema (serio, difficile e scolasticamente reso pesante) a un modo di fare televisione “giovane e pop” la rendono una serie vicina ai ragazzi, che potrebbero imparare in maniera alternativa.

L'assolutamente brutto e insipido Luca Marinelli.

Eppure, è più la polemica circa le ultime dichiarazioni dell’attore che la discussione (costruttiva) sulla serie. Non basta che abbiamo in Italia dei talenti tranquillamente invidiabili da star di Hollywood, la gente deve sempre sentirsi scontenta. Ma che ha detto alla fine Luca? Beh, una cosa ovvia no? Quasi banale, apodittica. Accostarsi a un personaggio così lontano da lui (come è normale che debba essere per tutti noi) è stata una cosa difficile e dolorosa. E tutti a gridare al piagnucolone, al pagliaccio, all’opportunista. Ma lasciamo le faide social alle sezioni commenti e cerchiamo piuttosto di capire cosa significhi, tecnicamente, l’affermazione di Luca.

Il poster di "M: il figlio del secolo", con protagonista Luca Marinelli.

Storia del teatro ridotta all'osso

Nel terzo atto dell’Amleto, il protagonista mette in guardia gli attori che ha commissionato per smascherare lo zio con un monito da tenere sempre a mente:

Ah mi guasta il sangue quando sento un accidentaccio tanto fatto, imparruccato, ridurre a brandelli la sua passione dilaniandola a morsi pur di sfondare gli orecchi a quelli giù in platea; ai quali arriva tutt’al più una pantomima incomprensibile […] Accordate l’azione alla parola, la parola al gesto […] lo strafare è contrario alla vocazione dell’arte teatrale.

Essereee... O non essereee...!

Per semplicità a volte un attore tende più a fingere, sfociando nei classici clichés. È arrabbiato? Alza la voce, urla e fa smorfie. È di fretta? Fa finta di guardare l’orologio e sbuffa. È vero: a volte nella vita reale ci comportiamo così, ma non in maniera tanto sfacciata. Si rischia, in scena, di diventare terribilmente finti e ripetitivi; rischio in cui poteva cadere la commedia dell’arte, forma di teatro molto diffusa in Italia nel XVII secolo.

Un quadro raffigurante la Commedia dell'Arte.

Niente copioni ma solo canovacci, una sorta di linee guida generalissime che contestualizzavano la storia, su cui poi l’attore improvvisava. E i personaggi erano stereotipi; più o meno in tutti gli spettacoli ti ritrovavi gli stessi caratteri fare le stesse cose. Anche un certo Carlo Goldoni, che personalmente amo, cominciò a scocciarsi e a volere qualcosa di nuovo e vero. Goldoni era innanzitutto autore, dava quindi ai suoi attori dei copioni scritti da lui che tutti dovevano rispettare. Le storie erano diverse, particolari, specchio del reale. Ma tra tutti, a godere di più di questa aggiunta di naturalezza erano i personaggi, con il loro arco narrativo diverso per ciascuno e finalmente originale.

Da fine Ottocento ci sono poi due personalità interessantissime che influenzano (una direttamente, l’altra da dietro le quinte) il mondo del teatro: Čechov e Freud. Il realismo psicologico, la sperimentazione di monologhi e atti unici del drammaturgo russo faranno scuola; la psicanalisi del pensatore austriaco farà metodo.

Cechov un po' pensieroso.

Arriva Stanislavskij...e tutti zitti

Di sicuro almeno una volta nella vita, magari in un’intervista del tuo attore rigorosamente hollywoodiano preferito, avrai sentito parlare del metodo Stanislavskij e ti sarai chiesto, mentre lo pronunciava, che ca**o fosse. Stanislavksij è stato (vabbè, al di là di attore e regista) un teorico del teatro che, a partire dai testi di Čechov e Shaekspeare, ha sperimentato nuove e rivoluzionarie tecniche di recitazione. Di sicuro avrà letto Freud, ma non ne abbiamo certezza (il nostro amico Sigmund non stava troppo simpatico ai sovietici). Che dire sul metodo? Beh, innanzitutto che non esiste.

Stanislavskij tutto preoccupato.

Attorno ad esso, come qualunque emblema di qualunque cosa, aleggia un’aria di Sacro Graal, la Santa Ricetta che una volta sbloccata magari non solo ti rende bravo come DiCaprio, ma pure più bello. Le tracce da cui dovremmo attingere si trovano tra Lavoro dell’attore su se stesso e Lavoro dell’attore sul personaggio, un vero e proprio casino da un punto di vista letterario; un diario più che altro, che ha seguito il corso dei continui ripensamenti e rimodellamenti dell’autore. Un processo artistico durato un’intera vita e continuato da tanti, tantissimi successori.

Da questo disordine si salvano però tante cose, e anche importanti. Dopo un’infinità di esercizi fisici e psicologici sull’imparare a stare in scena, a crederci come ci credono i bambini, Stanislavskij droppa la hit.

Il lavoro sul personaggio si compone di quattro fasi importanti:

Conoscenza: niente, semplicemente leggi il copione per la prima volta. E ricorda, la prima volta è quella speciale!
Reviviscenza: forse la parte più importante, e per quanto mi riguarda bella e commovente. L’attore in scena non è nient’altro che se stesso, porta le sue emozioni, il suo bagaglio. Il copione, la storia, il personaggio sono un pretesto per rivivere e riprovare.
Personificazione: si creano i ponti di contatto tra le tue emozioni e quelle del tuo personaggio, passaggio delicatissimo e punto di svolta per la nostra apologia di Luca Marinelli.
Comunicazione: ai fini dell’articolo non ci interessa, vai a leggere Stanislavskij!

Il simpatico schemino del metodo Stanislavskij.

Marinelli, seguace di Stanislavskij...non del dvce

Si sente spesso dire dagli attori che nell’interpretare un personaggio bisogna sospendere il giudizio; il senso di questa cosa è proprio nella personificazione. Raggiungere la sincerità delle emozioni del proprio personaggio con le proprie emozioni, trovando dei punti di contatto anche quando il personaggio che si interpreta è completamente diverso da noi.

Questo esercizio psicologico, dice Stanislavskij, può essere facilitato da quello fisico: per provare le cose che prova il nostro personaggio come prima cosa possiamo assumere sue movenze, suoi particolari tic, e soprattutto crederci. La verità fisica porterà molto più facilmente a quella psicologica. Questo concetto vale nei casi semplici, fingere per esempio di scrivere una lettera all’amata e crederci fino a commuoversi, e vale altresì nei casi più complessi, come interpretare Benito Mussolini.

Luca Marinelli interpretando Mussolini.

Marinelli con questo suo nuovo ruolo ha raggiunto la verità fisica con la trasformazione innanzitutto del corpo; tornava a casa con la propria testa ma col fisico del feroce dittatore. Una cosa del genere, perpetrata per tutto il tempo delle riprese, non deve essere stata una cosa facile. Non parliamo poi di quando sul set ha dovuto dire che il fascismo, lo stesso che ha ucciso liberi pensatori, portato l’Italia contemporaneamente alla miseria e alla guerra, è una creatura meravigliosa, e crederci con la convinzione malata di Mussolini.

Tutti quelli che si sono attaccati al “ho sofferto nell’interpretare questo ruolo” non avranno notato un’altra cosa molto interessante che Marinelli dice a proposito del personaggio: <<Deve aver avuto un grosso vuoto dentro, che ha cercato di colmare con la fame di potere.>>. Perché recitare vuol dire anche questo: andare oltre le apparenze, e con quel grande dono che ci contraddistingue (solitamente) dell’empatia, varcare confini dell’animo umano invalicabili, scrutare nei volti (come può essere quello del Mussolini da Palazzo Venezia) imperscrutabili.

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