Questo campionato sta portando i cuori di milioni di appassionati al collasso. Ho sentito bestemmie voraci invocanti controlli VAR, e respirato il fumo di sigaretta di chi rifletteva negli occhi il verde di un campo brillante. Ma perché il giuoco del pallone significa così tanto?
La lotta del tifoso
Ciao, sono Roberto, e sono un tifoso e in quanto tale ho:
- gioito come un bambino per reti da Puskas Award in campi di trasferte lontane, sotto il freddo cielo sovietico di città operaie al di là del Danubio;
- sviluppato una sindrome dell’abbandono mai risolta guardando i miei eroi, uomini milionari ben capaci di correr dietro un pallone lasciare un club del quale conosco la centenaria storia;
- visto mio padre, uomo tutto di un pezzo, educatissimo, dai modi estremamente gentili, diventare una belva adirata davanti ad un televisore a tubo catodico, e mio zio cardiopatico costretto, suo malgrado, a non vedere più partite perché incapace di reggerne lo sforzo emotivo.

In poche parole, sono un semplice essere umano, e per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa, ho scelto di diventare un tifoso e di non guarire mai.
In Europa, in Sud America e ormai anche in Asia, il concetto di sport di squadra è molto differente da quello consumistico made in Usa.
La finalità dei team, per anni, è stata quella di rappresentare gruppi sociali, una sorta di “partiti” applicati allo sport. Un po’ come se l’hegeliano concetto di società civile (uomini che si associano per perseguire interessi comuni) vestisse parastinchi, scarpini e maglia.
Ogni rivalità calcistica racconta le contraddizioni sociali dell’ecosistema umano che le vive: a Glasgow se il tuo credo è cattolico tifi Celtic, se protestante Rangers; se tuo padre era membro della working class milanese avresti con ogni probabilità tifato Milan, mentre se a Roma la tua estrazione fosse stata borghese avresti tendenzialmente preferito il bianco-celeste al giallo rosso.

Cultura e calcio: che c'entrano?
Al di là di una semplice costatazione sociologica, ti starai chiedendo: cosa c’entra la cultura con i milioni di scenari possibili relativi all’ultima giornata di campionato?
È semplice: il calcio ha intercettato migliaia di emozioni, più raffinatamente espresse dalla cultura dotta, dentro un rettangolo verde: questo sport riesce, come nessun altro a massificare quella che Nietzsche definiva la dimensione umana dionisiaca.
Sofocle, autore tragico per antonomasia, ritrova applicazione folkloristica nelle conferenze stampa tese di Conte a Inzaghi, da Eziolino Capuano a “mollo” Malesani, fungendo da Antigone per chi l’Antigone non ha voglia di leggerla. È l’imprevedibile, il caotico, che entra a gamba tesa nella vita di qualsivoglia appassionato, davanti al quale restiamo inermi, incapaci all’azione, destinati ad irrazionalissime lacrime, siano esse di gioia, o di dolore.
Per questioni di scaramanzia evitiamo di trattare la finale di campionato di quest’anno. Parliamo, invece, di due finali iconiche della storia del calcio.
5 Maggio 2002
All’Olimpico di Roma, pieno zeppo di tifosi ospiti festanti, l’Inter sfida la Lazio per ipotecare un titolo che manca da tredici anni e che sembra ormai cosa fatta grazie a quei due punti vantaggio sulla Juventus. La formazione meneghina, guidata da Héctor Cúper, passa in vantaggio con Vieri, al quale risponde l’attaccante ceco Poborsky. Poi ancora il nerazzuro Di Biaggio, poi ancora il ceco. Fu poi tracollo, Diego Simeone e Simone Inzaghi, nomi storicamente nerazzurri, sigillano il doppio vantaggio laziale. Finì 4-2. Nel mentre la Juventus passeggia a Udine, e la Roma vince a Torino coi granata con tre reti di Cassano. Il triplice fischio ci restituisce due immagini indimenticabili: il pianto di Ronaldo il Fenomeno e il laconico “non c’è niente da dire stiamo godendo” di Antonio Conte, all’epoca gobbo. A pensarci bene, non solo all’epoca. Come avrete senz’altro immaginato, non sta più scrivendo Roberto ma uno juventino.

13 Maggio 2013
A Manchester, lato blu, il titolo manca da quarantaquattro anni, quaranta e più anni vissuti all’ombra dei cugini concittadini. È il 12 maggio 2013, Manchester City e United sono primi e secondi, a pari punti, con il City in vantaggio per differenza reti. All’ultima giornata un QPR ostico mette in serie difficoltà i cityzens. Al minuto 91 la squadra londinese è in vantaggio 2-1, nel mentre lo United ha praticamente vinto con il Sunderland.

Al 92esimo Dzeko trova il pari, un pari insipido, ammenoché non segnasse: AGUEROOOOOOOOOOO, al minuto 94 infatti l’urlo del telecronista Martin Tyler romba nelle televisioni inglesi, su assist di Balotelli, l’attaccante argentino trova un insperato vantaggio, che consegnò un titolo, tanto agognato, agli uomini di Roberto Mancini.
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Ho 24 anni e studio giurisprudenza. Mi piacciono la filosofia del diritto, la politica e la pizza würstel e patatine. Ah sì, mi piace anche scrivere.
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