L’Eurovision Song Contest, in teoria, è una competizione musicale tra paesi. Nella pratica, è come il Risiko: il palco si trasforma inevitabilmente in uno strumento di comunicazione politica. È un vero e proprio vertice internazionale mascherato da show, dove spesso gli artisti riescono a rappresentare i loro paesi meglio dei politici stessi.
Neutrali come la Svizzera?
Il concorso tenutosi quest’anno a Basilea, a seguito della vittoria di Nemo nel 2024, si è presentato ancora una volta come “apolitico”. A ribadirlo ironicamente sono state le conduttrici svizzere intonando una canzone dal titolo “Made in Switzerland” in cui si canta:
“Like the Swiss, Eurovision is: non political, strictly neutral, doesn’t matter if you’re good or brutal.”

Un riferimento diretto alla tradizione elvetica di neutralità, usato per rafforzare l’idea che l’Eurovision debba restare fuori da logiche politiche e conflittuali.
Eppure, proprio in questa ultima edizione, ancora prima che iniziasse lo spettacolo, si è discusso molto della decisione dell’organizzazione di vietare agli artisti di esporre qualsiasi bandiera che non fosse quella del proprio paese.
Un gesto apparentemente neutrale, ma che ha avuto effetti molto concreti: sono scomparse le bandiere LGBT+, le bandiere trans, e tutti quei simboli che avevano sempre trovato spazio sul palco attraverso la comunità queer.
Proibizione che riguarda solo gli artisti in gara, perché il pubblico, almeno formalmente, è stato libero di portare qualsiasi bandiera.
Ma libertà non significa assenza di conseguenze: molte bandiere sono state sistematicamente ignorate dalle inquadrature, e i segnali di dissenso oscurati dalla regia televisiva.
Parlare di neutralità diventa ambiguo se si sceglie cosa mostrare e cosa no.
Le alleanze non troppo nascoste
In una gara del genere ogni dettaglio può diventare un simbolo e ogni scelta diventa un messaggio.
Basta analizzare i sistemi di voto per rendersi conto di quanto siano influenzati da legami culturali, politici o semplicemente geografici. I famosi “scambi di voti” tra paesi confinanti o storicamente amici sono da sempre oggetto di discussione.

Paesi scandinavi, baltici o balcanici tendono a sostenersi reciprocamente, generando uno squilibrio che raramente premia le nazioni dell’Est Europa (molte delle quali non hanno mai vinto). Non a caso, il record di vittorie spetta alla Svezia e all’Irlanda (con sette vittorie ciascuno), paesi spesso tra i favoriti.
Le tensioni internazionali entrano nel gioco
Nel contesto attuale, segnato da profonde tensioni internazionali, lasciare la politica fuori dal contest è praticamente impossibile. Alcune situazioni impongono una presa di posizione, anche da parte di un evento pensato per celebrare la musica.
Un esempio è la guerra tra Russia e Ucraina: nel 2022, l’EBU (European Broadcasting Union, l’organizzazione che gestisce l’Eurovision) ha deciso di squalificare la Russia, escludendola ufficialmente dalla competizione, usando come motivazione l’invasione del territorio ucraino da parte della stessa.

Una decisione chiara e netta, che ha fatto discutere ancora di più se confrontata con il caso, ben più controverso di Israele.
Nonostante il conflitto in corso con la Palestina e le crescenti critiche internazionali, Israele è rimasto in gara, generando tensioni evidenti.
La scelta dell’EBU di non escludere Israele è stata ampiamente contestata, ma l’organizzazione ha scelto di ignorare il dissenso, oscurando sistematicamente le proteste del pubblico nelle riprese ufficiali.
Voce = simbolo = strategia
La partecipazione dell’artista Yuval Raphael, così come quella di Eden Golan l’anno precedente, appare sin da principio come una scelta politicamente strategica, pensata per trasmettere un messaggio preciso al pubblico europeo.
Yuval è sopravvissuta all’attacco del 7 ottobre 2023, durante il quale si è dovuta fingere morta otto ore per salvarsi. La sua storia personale è fortemente legata all’attualità, e questo rende la sua presenza sul palco dell’Eurovision tutt’altro che neutrale. Al contrario, sembra inserirsi in una narrazione ben costruita, destinata a rafforzare l’immagine internazionale di Israele in un momento di forte crisi diplomatica.

Il brano presentato, “New Day Will Rise”, si propone come un messaggio di speranza e rinascita. Ma in un contesto come questo, il suo significato non può che essere profondamente politico.
Più che un semplice invito a guardare avanti, la canzone e l’intera performance si configurano come parte di una strategia comunicativa, che punta a rafforzare la percezione di Israele come vittima, spostando l’attenzione dal conflitto in corso verso una narrazione più empatica e individuale.
Il RisiKo della censura
L’Eurovision diventa così un vero e proprio teatro diplomatico, dove le canzoni sono solo la superficie di narrazioni molto più complesse. La decisione dell’EBU di mantenere Israele in gara è stata ampiamente contestata dal pubblico e da alcune delegazioni. Ma nonostante le proteste, l’organizzazione ha scelto la via del silenzio, censurando il dissenso nelle riprese ufficiali.
Durante l’esibizione di Yuval, il pubblico ha fischiato, e numerose bandiere palestinesi sono comparse tra la platea. Tuttavia, queste immagini sono state oscurate nella trasmissione televisiva, offrendo l’illusione di una serata senza tensioni.
I social, però, hanno raccontato una storia diversa: i video amatoriali diffusi online documentano un malcontento diffuso e palese, ignorato dalla regia ufficiale.

Una vittoria politica (senza trofeo)
Israele si è classificata seconda, ma non grazie alle giurie: è stato il televoto a spingerla così in alto. Un risultato che solleva più di una perplessità anche se è noto che il paese abbia investito ingenti risorse in campagne pubblicitarie multilingue, ben distribuite su YouTube e sui principali social, per incentivare il voto da parte del pubblico europeo.
Un secondo posto che, in un contesto così delicato, vale più di una vittoria sul piano dell’immagine.

Il caso di Israele, però, si distingue nettamente da quello dell’Ucraina, che nel 2022 ha vinto il contest con un consenso senza precedenti, sia da parte delle giurie che del televoto popolare.
L’ondata di preferenze ricevute dall’Ucraina ha segnato un record storico, sintomo di un sostegno collettivo legato al contesto del conflitto in corso.
Due paesi, due percezioni
In quel caso, la dimensione politica si era intrecciata con un forte sentimento popolare e con una narrazione mediatica coerente e compatta, che presentò l’Ucraina come vittima di un’aggressione esterna.
Israele, invece, genera una netta spaccatura. Viene percepito da una parte crescente dell’opinione pubblica come l’attore dominante nel conflitto con la Palestina, e questo rende meno efficace la narrativa della vittima.

Opinioni, identità, storie: tutto confluisce nel grande spettacolo mediatico che è l’Eurovision.
A Risiko vince chi muove le pedine giuste al momento giusto, anche se non sempre nel modo più pulito.
All’Eurovision succede lo stesso.
Non vince solo chi ha la canzone migliore, ma chi costruisce il racconto più efficace, chi sa smuovere l’opinione pubblica, stringere alleanze invisibili, e giocare d’astuzia sotto l’etichetta della “neutralità”.
Chi vince davvero?
Chi si nasconde dietro la musica per vincere battaglie ben più rilevanti di un contest sonoro.
Di fronte alle immagini della guerra a Gaza e alle numerose vittime civili, il tentativo di Israele di presentarsi sotto una luce positiva incontra resistenza e diffidenza.
In questo contesto, raccogliere consensi sinceri diventa estremamente complesso.
Alla fine dei conti, il punto è chiaro: è impossibile separare arte e politica, soprattutto in una competizione tra paesi.
Ogni artista porta sul palco un messaggio che inevitabilmente si intreccia (o si scontra) con la cultura, la politica o la sensibilità di qualcun altro.
In questo contesto, il dissenso non “politicizza” il contest: semmai, mette in discussione scelte che sono già profondamente politiche. Quando l’intento di uno Stato è chiaramente strategico, chiedere che anche le reazioni rimangano “neutrali” significa in realtà silenziare ogni voce contraria.
Non è la politica a essere esclusa: è il dissenso.
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